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A Durban i conti con le conseguenze del surriscaldamento del pianeta

Siccità, inondazioni, alluvioni, ondate di caldo: negli ultimi 20 anni, tra il 1991 e il 2010, la Natura ha presentato il conto ai meno abbienti, Bangladesh, Myanmar, Honduras, che hanno tributato il maggior numero di vite umane ai disastri climatici. Ma già dall’anno scorso, anche i paesi più solidi hanno cominciato a fare i conti con le conseguenze del surriscaldamento del pianeta: le 56.165 vittime dirette dell’afa che ha colpito l’anno scorso la Russia portano la nazione di Putin al quarto posto nella classifica compilata da Germanwatch, organizzazione non governativa tedesca, per determinare l’Indice globale di rischio climatico. Per semplificare: la graduatoria dei paesi che hanno sofferto di più, in termini di perdite umane e materiali.

CLASSIFICHE DISASTROSE – Per il 2010 ai poco ambiti vertici della lista si sono classificati il Pakistan, il Guatemala e la Colombia. Ma in settima e ottava posizione ci sono due nuovi ingressi: Polonia e Portogallo. Il messaggio è che una catastrofe atmosferica può capitare ovunque, con conseguenze devastanti, anche nelle nazioni sviluppate e sufficientemente attrezzate per proteggersi dalle ritorsioni del pianeta alle emissioni di gas a effetto serra. Il bilancio presentato martedì a Durban, al secondo giorno della conferenza sul clima (COP17), è angosciante: in dieci anni 710 mila persone, l’equivalente della popolazione di una città delle dimensioni di Amsterdam o dell’intera provincia di Modena, sono state sterminate dalle 14 mila catastrofi naturali che hanno flagellato il mondo. Non tutte sono imputabili ai cambiamenti climatici ma, secondo Bettina Menne, responsabile del Cambiamento climatico, sviluppo sostenibile e salute dell’Oms-Europa, almeno 300 mila morti (il doppio del decennio precedente) sono indirettamente provocate dal riscaldamento generato dalle attività umane e all’origine di carestie, siccità ed epidemie.

IRREVERSIBILE – All’Organizzazione Meteorologica delle Nazioni Unite (WMO), non hanno dubbi sul fatto che l’umanità stia galoppando verso un surriscaldamento dai danni irreversibili per l’ecosistema. Negli ultimi quindici anni si concentrano tredici anni dalle temperature medie più alte registrate in oltre un secolo e mezzo, cioè dal 1850, l’anno in cui cominciarono le misurazioni più attendibili. E il 2011 avrà contribuito entro poche settimane all’innalzamento della media, come uno degli anni più caldi, funestato anche dal passaggio della Niña, che le alte temperature hanno reso ancora più devastante nell’Africa orientale, ma pure nel sud degli Stati Uniti, in Australia orientale e nell’Asia meridionale.

QUOTA CLIMA – Nessuno è al riparo, come avverte Germanwatch, anche se in Europa la calura dell’estate del 2003 può essere ancora considerata un’eccezione, mentre le inondazioni in Bangladesh sono una ferale routine. Ma la sirena d’allarme si è sentita anche negli uffici di alcune delle maggiori organizzazioni di trasporto, settore imputato di produrre una buona parte delle emissioni colpevoli. Così, alla Conferenza di Durban, il WWF e Oxfam si sono felicemente unite alla International Chamber of Shipping (che rappresenta l’80% della flotta mercantile mondiale) per annunciare che gli armatori faranno la loro parte: tra le misure considerate c’è quella di devolvere una quota significativa dei ricavi del trasporto marittimo ai paesi in via di sviluppo per sostenerli nella lotta ai cambiamenti climatici. Il settore, in pratica, gioca d’anticipo sulla tassa allo studio dei negoziatori inviati alla Conferenza per compensare i danni all’ambiente inflitti dal traffico aereo e marittimo.

Fonte: corriere.it

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