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Grandi speranze sul clima

Grandi speranze sul clima

di Galeotti e Lanza

Dal 30 novembre all’11 dicembre a Parigi si discuterà di clima. Le speranze sono molte, ma la possibilità di un accordo dipende dalla soluzione della dicotomia tra responsabilità storiche ed emissioni attuali. La Conferenza segnerà al massimo l’inizio di un processo lungo e ancora irto di difficoltà.

Passato, presente e futuro delle emissioni

Tra il 30 novembre e l’11 dicembre l’attenzione dei media di tutto il mondo sarà concentrata sulla 21ª conferenza delle parti della Convenzione quadro sul cambiamento climatico, la cosiddetta Cop 21, che si terrà a Parigi.
Come accade dai tempi del protocollo di Kyoto (Cop3, dicembre 1997) il mondo si divide tra paesi industrializzati, che hanno una responsabilità storica imprescindibile nel determinare quante emissioni sono state prodotte a partire dalla rivoluzione industriale, e paesi in via di industrializzazione ed economie emergenti, che sono invece i protagonisti principali delle emissioni attuali.
Per emissioni cumulate complessive (1890-2012) il mondo si divide grossomodo in tre blocchi: il primo comprende Stati Uniti e Unione Europea, responsabili per poco più della metà; Cina, che rappresenta da sola il 25 per cento di queste emissioni; resto del mondo, che copre il restante 25 per cento. Nel linguaggio di Kyoto, i paesi del cosiddetto Annex 1, ovvero i paesi industrializzati, sono responsabili per il 70 per cento delle emissioni complessive.
Rispetto alla realtà storica si possono considerare le emissioni attuali. La Cina rappresenta da sola il 25 per cento delle emissioni complessive, numero destinato probabilmente a crescere ancora nei prossimi anni. Nella top 10 per livello delle emissioni (in totale il 73 per cento del totale delle emissioni) fanno bella mostra di sé anche Iran, Indonesia, Brasile, India e Russia.

L’essenza dell’accordo sul clima

È su questa dicotomia – responsabilità storiche rispetto a emissioni attuali – che si gioca l’intera partita sul futuro accordo sul clima (grafici 1 e 2). Considerando che i paesi che hanno le maggiori responsabilità storiche generano anche la maggiore fetta del prodotto interno lordo mondiale, quello che ci si attende dal negoziato non è che i paesi industrializzati riducano le loro emissioni, cosa che hanno cominciato a fare da tempo, ma anche e soprattutto che finanzino la riduzione delle emissioni dei paesi meno industrializzati.
Il conto però potrebbe essere salato. Secondo l’ultimo World Energy Outlook appena pubblicato dalla Iea (International Energy Agency), per dare la piena attuazione agli impegni sul clima che le diverse nazioni hanno enunciato in vista del vertice di Parigi, sarebbe necessario un investimento complessivo di 13,5 trilioni (migliaia di miliardi) di dollari. Nonostante sia un investimento da spalmare nel tempo, resta una cifra di tutto rispetto se si considera che il Pil mondiale, secondo il Fondo monetario internazionale, nel 2014 era pari a circa 54 trilioni.
E nonostante l’importante e assai ipotetico investimento, quegli impegni ancora non sarebbero sufficienti per operare la correzione di rotta necessaria per raggiungere l’obiettivo concordato a livello globale di limitare l’aumento medio della temperatura a 2 gradi centigradi.

La forma dell’accordo

 Il tema dell’equità rappresenta dunque un elemento ancora fondamentale: conteranno di più le emissioni di oggi e di domani o quelle di ieri? La questione è ancora aperta.
Non è chiaro che forma di documento verrà adottata. Rispetto al tema del cambiamento climatico i paesi sono legati da una convenzione, la Convenzione quadro sul clima adottata Rio de Janeiro nel 1992 (Unfccc, United Nations Framework Convention on Climate Change).
La Convenzione, tuttavia, prevede obblighi generici e assai poco stringenti. È stata accompagnata, per un tratto di strada, da un protocollo specifico – il protocollo di Kyoto – che fissava limiti assoluti alle emissioni per alcuni paesi nel periodo 2008-2012. Finito il protocollo di Kyoto, si tratta ora di offrire alla Convenzione un nuovo insieme di strumenti per poter proseguire.
Le scaramucce sono già iniziate: il segretario di Stato americano Kerry ha dichiarato giorni fa che le decisioni che verranno prese a Parigi non saranno “legally binding” ovvero giuridicamente vincolanti, anche perché “l’accordo non sarà un trattato”. Sembra una grande novità, ma in realtà è la riproposizione dello schema adottato a Kyoto. Il protocollo non era giuridicamente vincolante, ovvero non esistevano sanzioni significative per un paese che non avesse rispettato gli obblighi.

Le novità dell’oggi

Quello che appare evidente è un certo superamento del modello scaturito alla Cop15 di Copenaghen, dove si erano sentite battere a morto le campane rispetto al tradizionale multilateralismo delle Nazioni Unite. Erano i tempi del nascente spirito del G2, dell’idea che Stati Uniti e Cina insieme potessero risolvere o comunque condizionare il dibattito sul futuro del clima nel mondo. Oggi sembra di essere andati oltre e l’alto numero di paesi che hanno presentato la loro Intended Nationally Determined Contribution è lì a dimostrarlo.
Parigi rappresenterà al massimo l’inizio di un processo lungo e ancora irto di difficoltà. Basti pensare che qualunque sarà la decisione che emergerà da Parigi, dovrà fare i conti con la nuova amministrazione americana, con le elezioni nei principali paesi europei e con il nuovo piano quinquennale della Cina.

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L’articolo è pubblicato anche su www.tvsvizzera.it

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